Vita e leggenda di “Ciccio” Cacozza, capopopolo pacifista nella Napoli post-unitaria
Trattandosi di anarchici,
è bene che le loro storie
sopravvivano all’indifferenza
degli storiografi.
(Massimo Novelli, “Cavalieri del nulla”)
A coloro che si trovavano ad assistere alla seduta del 6 maggio 1923, nell’aula di Montecitorio, difficilmente sarà sfuggita la presenza sulle tribune di un uomo vestito in abito religioso, attento uditore della farsa che, com’era ormai divenuta consuetudine, avrebbe portato all’approvazione dell’ennesimo Regio Decreto del neonato regime fascista. Deputati per lo più, schiacciati sui banchi da un consenso imposto a suon di manganello dopo la Marcia su Roma, complici, o annoiate comparse di un potere monarchico indifferente. Fu in questo squallido scenario che, alzatosi dalla silente tribuna, il sacerdote sparpagliò per l’aula decine di fogli di carta. Erano volantini antifascisti.
Possiamo immaginarci corpulente guardie affrettarsi a bloccarlo, preparandosi per un conflitto a fuoco che non avverrà mai. L’uomo infatti, dopo aver lanciato per aria gli ultimi fogli si era rimesso disciplinatamente a sedere, attendendo con le mani alzate che i gendarmi lo portassero via, strattonandolo in malo modo. La scena si era svolta sotto gli occhi dei gerarchi, increduli per quell’affronto così plateale e sfacciato che, fino ad allora, non si era mai visto. L’incredulità si tramutò ben presto in ilarità, alla notizia che quell’uomo travestito da prete era in realtà Francesco Cacozza, classe 1857, capopopolo napoletano di inclinazione libertaria, non nuovo a singolari proteste non violente.
Erano anni ormai, infatti, che nelle grigie stanze del Casellario Politico Centrale giungevano da Napoli rapporti e segnalazioni a carico di questo ex capostazione, che in gioventù aveva rinunciato ad una brillante carriera nelle Ferrovie per abbracciare la causa anarchica, interpretandola in un modo tutto suo. La precisazione è d’obbligo, vista la straordinaria singolarità della figura di “Ciccio” Cacozza, un pacifista solitario e tenace fino all’inverosimile, tanto da indurre i suoi contemporanei a deriderlo come un ribelle da operetta, nemmeno che la dignità di oppositore si potesse appuntare al petto solamente di chi decideva di imbracciare un fucile. Tuttavia, all’epoca dei fatti, ciò era in qualche maniera addirittura comprensibile. Troppi anni separavano ancora Francesco Cacozza dal rivoluzionario concetto di lotta gandhiano, così che agli occhi dei più, la sua “delicata” ribellione ai governi risultava inadeguata, quasi ridicola.
Non così dovevano pensarla di lui nella sua Napoli, ed in special modo gli abitanti del Vasto o di Santa Lucia, di cui nel 1885 prese le parti, all’indomani dello “sventramento” del centro storico voluto dal governo Depretis per ripulire quei malsani quartieri plebei. Parteggiava suo modo, sciorinando tra i vicoli argomentati discorsi a favore del diritto alla casa e contro il caro pigioni che lo resero molto amato dal popolo e molto odiato dal governo.
Iniziò in questo modo per il giovane “Ciccio” un continuo entrare e uscire dalle peggiori gattabuie del Regno. Si faceva arrestare senza opporre reazione e scontava le pene con santa pazienza, per poi tornare testardamente a professare il suo pensiero alle folle, una volta rimesso in libertà. Vicoli e strade all’ombra del Vesuvio venivano così nuovamente trasformati in palcoscenico per le arringhe dell’inguaribile idealista Cacozza. “Scetateve guagliò”, sembrava voler dire dallo scanno di piazza Principe Umberto, su cui salì nel 1914 per protestare contro il governo Salandra. Ed il suo linguaggio suadente faceva breccia tra le mura dei bassi e delle dimore più umili, dove era ancora forte il trauma per la precipitosa unificazione alla casata Savoia, con il collasso improvviso che aveva portato l’antica capitale borbonica ad assoggettarsi ai capricci di una monarchia insensibile e distante, prima ancora che alle aberrazioni di una asfissiante dittatura. Un malessere cresciuto in special modo negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, e che aveva portato non di rado ad interpretare l’utopia libertaria come risposta violenta alle prevaricazioni dei potenti. Ne è un celebre caso l’attentato fallito di Giovanni Passannante a re Umberto I, compiuto proprio a Napoli nel 1878.
Ma non era di certo questo il pensiero in cui si riconosceva il pacifico Cacozza, il quale invece di arrovellarsi nell’escogitare arditi attentati dinamitardi, preferiva impugnare penna e calamaio per scrivere lettere di protesta al giornale Roma, in cui si scagliava contro “i metodi barbari e vigliacchi di chi fa di tutto per impedirmi di tirare innanzi onestamente la vita”. Tutta colpa, a dirla come il buon “Ciccio”, “della sbirraglia” che non voleva saperne di lasciare in pace i cittadini che “hanno il torto di non avere una mente molto ortodossa”.
Cacozza lasciò alle righe il compito di trasmettere tutta la sua indignazione anche quando gli capitò di essere svegliato dalla polizia del Re, mentre dormiva tranquillamente in una casetta di Resina. Perquisito accuratamente, senza che venisse trovato in suo possesso nulla di offensivo, egli appuntò parole colme di sdegno per l’arroganza con la quale i “lor signori” avevano maleducatamente interrotto il suo sonno, senza nemmeno sentirsi in dovere di rivolgergli infine le dovute scuse.
La fama di brav’uomo di “Ciccio” Cacozza, diffusasi negli ambienti napoletani, fece sì che, con il moltiplicarsi dei sui comizi, la polizia locale cominciasse a chiudere un occhio, evitando quando possibile di dover incarcerare ogni volta quell’anarchico tutto sommato inoffensivo che, si vociferava, fosse anche un po’ matto. Lontano da Napoli invece, gli toccò una sorte ben diversa. In seguito alla condanna per il lancio di volantini a Montecitorio, venne nuovamente incarcerato. Solo l’amnistia gli scansò la tremenda pena di rimanere segregato in una cella fino alla morte, così com’era già toccato all’istintivo Passannante. Ormai considerato un mezzo svitato e rilasciato con la promessa di non ripetere mai più azioni lesive della stabilità e del buon nome del regime mussoliniano, “Ciccio” tornò a vivere nella sua Napoli, dove intraprese il mestiere di giornalaio.
“Il mondo esteriore sta ormai travolgendomi, ma io non me ne andrò senza un ultimo gesto di ribellione”, scriveva proprio in quegli anni Renzo Navatore, un altro noto alfiere del pensiero libertario, e così anche per Francesco Cacozza l’inevitabile saluto al mondo terreno coincise con la voglia di ribadire quanto sognato per tutta una vita. Nell’ultimo dei suoi volantini espresse con indomita fermezza il supremo desiderio di libertà che appartiene ad ogni essere umano, condito con il principio bakuniano di autodeterminazione dei popoli.
Più semplicemente, è stata l’instancabile predicazione alla fratellanza la sfumatura più straordinaria nel pensiero di questo dimenticato ed incredibile personaggio. Un ideale ribadito inutilmente fino alla morte in povertà dentro un ospizio, così come pareva essere crudele consuetudine per molte menti illuminate di quegli anni. Un’epoca sorda, dove l’arroganza dei sistemi totalitari si affacciava prepotentemente verso il culmine della sua più tragica degenerazione: le guerre, le leggi razziali, la Shoah.
Oggi, provando a mettere a fuoco la sua storia tra le nebbie del tempo, non possiamo non domandarci quale avvenire diverso ci sarebbe stato, quante lacrime si sarebbero potute risparmiare, se si fosse capito in tempo che la vera follia stava tutta da un’altra parte?
Sarebbe bastato dare il giusto peso alle parole pronunciate con entusiasmo, senza menzogna, da quel delicato ribelle.